Chi lo avrebbe detto che la vita sarebbe stata così? Una cosa buttata in un angolo, un brandello trovato per strada che finge di essere se stesso davanti alla vita. I giorni ripetuti uguali, replicati con regolarità ossessiva; a fatica arrivava la notte a mettere un coperchio insonne all’orrore del giorno passato a cercare dosi. Quando osavo dormire, mostri che affioravano dal mio sottosuolo se ne stavano lì, con i loro occhi senza vita, a guardare la mia vita morta. Com’è cominciato? In apparenza niente non andava, avevo una casa, un lavoro gratificante, una fidanzata carina. E allora, cosa? Un senso di vuoto? Un’insufficienza dell’essere? Non lo so. So solo che per qualche motivo mi sono adattato in fretta a guardare in faccia al peggio senza battere ciglio.

Ho iniziato quando hashish e marijuana avevano ancora un alone esotico, ma subito è stato chiaro che qualunque cosa mi fossi trovato davanti l’avrei fumata, inalata, ingerita, iniettata. C’era solo da aspettare.
A vent’otto anni avevo una ragazza e con lei parlavo la lingua speciale degli amanti: avrei giurato di essere nato con l’eco del suo nome nel cuore. Purtroppo non sapevo che in entrambi circolava una febbre distruttiva che presto ci avrebbe separati. Nel giro di un anno demmo inizio a un consumo forsennato e ogni cosa, anche il sentimento che ci legava, cominciò a ruotare intorno all’uso. Per perso tempo ho sentito il peso di averle aperto le porte verso una vita peggiore da quella che avrebbe potuto avere. Come capita a tutti, all’inizio ci sembrò di poterne fare un uso controllato ma a un certo punto, senza quasi accorgercene, chiudemmo le imposte per condurre una vita ricca di sogni e povera di fatti nella tenue, avvolgente penombra della mia casa. La dipendenza però comporta impegni e fatiche inderogabili e per assolvere queste cominciammo a fare sempre meno cose e a litigare sempre più spesso. Così, un giorno, lei se ne andò con uno – anche lui tossico.

Credo di non stupire nessuno se dico che non ne soffrii più di tanto.
Tornai dai miei portando oltre a me stesso anche la mia ossessione.
La mattina andavo al Sert e lì stazionavo insieme ad altri disperati con i quali facevo ragionamenti da disperati che di regola ruotavano intorno al modo di procurarsi dei soldi. Tanti e subito, naturalmente. Ero convinto che se avessi avuto un po’ di soldi sarei ripartito da zero, lontano dalle tentazioni e dall’accanita ostilità di una metropoli provinciale e meschina. L’occasione si presentò quando un amico mi propose di accompagnarlo oltreoceano: aveva un lavoro in Florida e gli serviva qualcuno che gli desse una mano. Non me lo feci dire due volte e riempita una bottiglia con due litri di metadone, partii. Secondo i miei calcoli sarebbero stati sufficienti per scalare in quaranta giorni. Magari un po’ brutalmente, ma che importava? Una nuova vita stava per cominciare.
Lavorando, il tempo trascorreva velocemente e io non stavo poi così male, anche se faticavo a dormire e quando ci riuscivo avevo incubi orribili. Riuscii a scalare il metadone e il mondo sembrava di nuovo sorridere e le donne erano tornate a essere qualcosa da prendere in considerazione. Portato a termine il lavoro ci accingevamo a tornare quando conobbi una ragazza. Ci trasferimmo a New York, l’eccezionale che tanto desideravo stava finalmente entrando a far parte della mia vita. Il primo mese volò sull’onda dell’euforia: la città che non dorme mai era all’altezza delle aspettative e tra concerti, mostre, party mi sentivo come in un film. E, come nei film degli anni Cinquanta, avevo sempre un bicchiere in mano.

Sfortunatamente il visto che stava per scadere mi costrinse a tornare in Italia. Mi venne così naturale approfittarne per usare di nuovo e pensai fosse meglio ripartire in fretta. Tornato a New York cominciai a bere sempre di più raccontandomi che l’alcol non era mai stato un problema. Non usavo droghe ma, un cocktail dopo l’altro, passarono mesi d’inferno e alla fine la mia ragazza cominciò a dare chiari segnali di non volerne più sapere di me.

Mi feci prestare dei soldi per il biglietto aereo e poche settimane dopo mi ritrovavo nello stesso punto da cui ero partito: davanti al Sert, insieme agli stessi disperati di prima. Stessi discorsi, stessi atteggiamenti, stesso senso di sconfitta. Fu in quei giorni che si fece strada qualcosa che assomigliava al desiderio di smettere.

Sì, ma come? Avevo passato anni cercando di piantarla con droghe e alcol, senza neanche andarci vicino. Un giorno arrivò, inaspettata, arrivò la telefonata della mia ex ragazza e compagna di uso. Come va? Che fai? Hai smesso? Ma davvero … E come? Narcotici Anonimi? Sì, ne ho sentito parlare in America. Sì, proverò anch’io.

In realtà dovevano passare altri sei mesi, un’overdose, un’infezione, una denuncia e tanto malessere da riempirci buona parte di vita. Finché la mia ex ragazza non arrivò in città e mi trascinò a una riunione.
Che effetto mi ha fatto la prima riunione? Se devo essere sincero, mi ha messo a disagio. La cosa più vicina al cerimoniale di una setta segreta cui avessi mai partecipato.

Si festeggiava un compleanno di recupero. La stanza era piena, illuminata solo da una grossa candela cubica. Io mi sono accasciato in un angolo e nel torpore ascoltavo la storia del festeggiato che raccontava qualcosa a proposito dell’urlare dal balcone e dell’uscire nudi per strada per sfuggire a un complotto. E questo che c’entra con me, ho pensato? Ho richiuso gli occhi e li ho aperti solo quando sono stato scosso da un applauso. Sul finire qualcuno mi ha chiesto se volevo parlare, ma non sapevo cosa dire, e allora farfugliai qualcosa riguardo al fatto che ero rimasto colpito dall’aspetto liturgico della riunione. Poco dopo sono stato invitato a ritirare il portachiavi bianco e l’applauso l’ho sentito inopportuno, un po’ come ai funerali dove si battono le mani all’uscita del feretro, impazienti di bandire la tristezza anche dai luoghi dove sarebbe naturale incontrarla. Mi sarei aspettato un Requiem più che un battimani. Si è accesa la luce e io non sapevo cosa fare, dove guardare. Poi una specie di preghiera e infine la cosa peggiore: gli abbracci. Avrei voluto essere ignorato, per pietà, per decenza. Nonostante questa prima impressione dopo qualche giorno tornai col sentimento di essere ormai arrivato all’ultima spiaggia e, visto che nessuno mi chiedeva di acquistare a caro prezzo un kit per raggiungere l’illuminazione, ho continuato a farlo. In breve il gruppo mi ha coinvolto con il suo affetto e io mi sono lasciato coinvolgere. Ho preso uno sponsor, ho cominciato a fare servizio: vice segretario, me lo ricordo come fosse adesso, e già cominciavo a sentire che stavo recuperando una parte di me.

In Narcotici Anonimi tre cose mi sono state di grande aiuto: la visione della dipendenza come malattia, le persone del gruppo, la spiritualità come terapia per un problema che avevo sempre affrontato con gli unici strumenti a mia disposizione, vale a dire la fuga e la chimica. Appartengo alla numerosa schiera di dipendenti ai quali l’idea di avere una malattia dà sollievo. Riconoscerlo è stato una liberazione, perché una malattia è ancora accettabile, quello che pensavo di me sarebbe stato di gran lunga più difficile da mandar giù. Accogliendola mi sono reso conto di non essere una persona così tanto sbagliata e di così discutibile moralità. Ho un problema la cui soluzione va cercata dentro, non fuori di me. L’immagine adolescenziale che avevo di me stesso, di persona “contro”, di ribelle, di nomade, di viaggiatore, si è infranta sull’evidenza che le droghe non sono state altro che il veicolo di un uomo che non sapeva camminare. Non è colpa di nessuno, è solo che è così. Le droghe facevano sì che mi sentissi appagato dalle mie fantasie senza sentire il bisogno di metterle in atto. Credo di possedere un’autentica vocazione per questo e ancora oggi è un impegno pressoché quotidiano cercare di superare questo limite.

Le persone del gruppo. Molte di loro non potranno mai nemmeno sospettare quale segno inestinguibile hanno lasciato dentro di me. Ci sono persone alle quali vorrei dire grazie e dire loro che le amo come tutti i giorni nuovi che vivo, le amo come il Mar Mediterraneo, come i quartetti di Borodin, come tutte le cene insieme.

Poi ho creduto nel programma dei Dodici Passi, ognuno dei quali è penetrante saggezza, solidità, apertura, liberalità. Ma soprattutto – e di questo sono particolarmente grato – il programma di NA è assenza di fanatismo, è tolleranza che accetta anche chi, come me, con la fede ha poca dimestichezza. Nonostante da piccolo abbia frequentato scuole religiose, a un certo punto della vita non ho più sentito il bisogno di una religione per intrattenere la mia coscienza.

È una visione tragica quella di chi sente che la nostra specie non possa vantare alcun privilegio o posizione dominante nell’universo, di non potersi appellare né sperare in alcun Dio che assicuri la salvezza e indichi il percorso. Visione tragica con la quale però, oggi, convivo serenamente. Ero una persona che, come tanti in questo Paese, ha bevuto latte e cattolicesimo fin dall’infanzia e a fatica era in grado di pensare una spiritualità separata da questa cultura. Senza la precisazione “Dio, così come lo possiamo concepire”, forse non sarei rimasto in NA; senza il riferimento laico a un potere superiore, forse ora sarei morto.

Comunque sia, il fatto di non credere in Dio non mi impedisce di avere uno spirito né mi dispensa dall’usarlo. Del resto il programma di NA non mi chiede di credere in un Essere soprannaturale, mi chiede di credere in qualcosa di superiore a me stesso. Questo esige un certo sforzo d’immaginazione: dalle nostre parti Dio e Io sono separati solo da una lettera. Ma è uno sforzo necessario perché è dalla percezione del mio limite che comincio a crescere.

Tutto quello che forma una coscienza collettiva è superiore a me, e un gruppo NA è una coscienza collettiva che non può essere descritta come semplice somma delle sue parti. Ricevo qualcosa quando mi ritrovo in una testimonianza, ma anche ascoltando cose che mi danno fastidio o che esprimono un modo di vedere il mondo perso dal mio. Certo, entro certi limiti. Senza sconfinare nell’autolesionismo o nell’estetica del brutto. In questi rari casi mi sento libero di uscire dalla stanza. Entro questi limiti, però, l’“uguale a me” e il “perso da me” contribuiscono entrambi a tracciare il mio nuovo percorso.

Ho imparato che la spiritualità non è un’esclusiva di chi pratica una religione: appartiene a chiunque pensi che occuparsi di sé – e di sé in relazione al mondo – non sia un aspetto momentaneo della vita, ma un modo per vivere. È una spiritualità che si nutre dell’esperienza dell’interiorità, della ricerca del senso, del confronto con la realtà della morte come parola originaria e con l’esperienza del limite; una spiritualità che conosce l’importanza anche della solitudine, del silenzio, del pensare, del meditare. È una spiritualità che si alimenta dell’alterità: va incontro agli altri e in essi riconosce se stesso.

È proprio per soddisfare questo bisogno di alterità che continuo a tornare per sentire le storie degli altri. Senza il travaso di questa nuova linfa anche la mia storia sarebbe ormai inaridita, non sentirei più il bisogno di raccontarla, non avrei più voglia di ricordarla. Avrei esplorato ogni suo aspetto, estratto tutto il succo possibile e, infine, l’avrei digerita ed espulsa fidandomi dell’illusione di essermi rinnovato e risolto definitivamente. Sarebbe un errore che potrebbe costarmi molto caro. La malattia della dipendenza è ancora parte di me, quest’avversione implacabile per le mezze misure esiste ancora. È “in sonno” ma so che è lì, pronta a colpire al segnale convenuto.