Sono cresciuto in una famiglia numerosa, ottavo di nove figli. Sin dalla nascita, mia madre mi ha fatto vivere una vita “parallela” segreta, nel senso che mi portava spesso a casa del mio padre biologico, con il quale aveva un rapporto extraconiugale dal quale sono nato io. Mia madre mi aveva messo al corrente di questo all’età di undici anni, ma penso che inconsciamente lo avessi capito da tempo. Ma anche prima di dirmelo, mi intimava di non far trapelare niente al riguardo, dato che avrebbe causato la rottura della famiglia.

Verso gli undici anni iniziai a mangiare compulsivamente ingrassando molto, cosa di cui mi vergognavo. A tredici anni, durante la cena della fine della terza media ho bevuto per la prima volta la birra e mi sono addormentato sul tavolo davanti alla maestra e ai miei compagni di classe. All’età di quattordici anni iniziai a ossessionarmi sul mio peso e quindi cominciai a non mangiare fino al punto di dover essere ricoverato. Nel frattempo continuavo a bere saltuariamente e, dato che non lo facevo molto spesso, non pensavo che fosse un problema, anche se mia madre mi aveva sempre avvertito di stare attento in quanto anche i suoi genitori avevano avuto un problema con l’alcol, che pensava potesse essere ereditario. A sedici anni provai per la prima volta la marijuana e per molto tempo rimase un episodio isolato.

In quel periodo intrapresi una psicoterapia, ma fui di nuovo ricoverato per anoressia. Una mia sorella mi disse che mi dovevo disfare dei “segreti” perché erano la causa del mio malessere. L’ascoltai e, con difficoltà, riuscii a svelare questo segreto ai miei familiari, compreso mio padre. Ne trassi un sollievo immediato, anche se mi sentivo un po’ in colpa.

Quando mio padre morì, cominciai a usare più spesso e in quantità sempre maggiori. Fu in quel periodo che ebbi il primo attacco di panico mentre ero su un aereo dopo che avevo fumato molto. Usavo nonostante la grande ansia e paranoia che mi provocava e nonostante me ne sentissi in colpa. Riuscii a laurearmi con ottimi voti e anche a vincere una borsa di studio per merito accademico. Riuscivo anche a lavorare venti ore a settimana durante gli studi. Usavo alcol saltuariamente, a volte in modo eccessivo e ogni tanto fumavo. Per me la marijuana era un tranquillante naturale, innocuo, qualcosa che mi rendeva una persona “migliore”, più socievole, più rilassata, meno irritabile e più ottimista. Pensavo mi facesse vedere le cose da un punto di vista diverso. Fumavo sempre da solo, chiuso dentro casa, dato che farlo con gli altri mi provocava molta paranoia. Dopo aver chiuso un rapporto con quella che era stata la mia compagna per tre anni, fumai per tre anni di fila, ogni giorno. Riuscii a smettere perché avevo paura di questa dipendenza, anche se ero sicuro che ce la potessi fare e che non era assolutamente un problema. Il lavoro non andava male anche se non avanzavo nella mia carriera. Tendevo a isolarmi ed ero molto irritabile e scontroso, ma non ritenevo di avere problemi seri. Durante la malattia di un fratello iniziai ad avere attacchi di panico, a volte dovevo tornare a casa dal lavoro o scendere dal treno a causa di questi attacchi. La mia nuova compagna, con la quale convivevo, cercava di aiutarmi e iniziai a rivedere una psicoterapeuta. Dopo una crisi scaturita dal fatto che non riuscivo a prendere l’aereo per andare a trovare mio fratello che stava morendo di leucemia in un altro continente, mi rivolsi a uno psichiatra che mi prescrisse dei farmaci, anche perché avevo iniziato ad avere pensieri suicidi. In quel momento furono utili per farmi riuscire ad andare a trovare mio fratello e a fumare di meno. Dopo qualche anno di psicofarmaci e saltuarie sedute dallo psichiatra, mi lasciai con la mia compagna, e di nuovo iniziai ad usare per un anno mezzo tutti i giorni. Lo psichiatra mi diceva che fumare mi faceva male e di provare a farlo tre volte a settimana. Ci provai, ma nel giro di poco tempo fumavo tutti i giorni, non riuscivo a farne a meno, se non usavo ero depresso e irritabile: la rabbia, l’ansia, la disperazione, la solitudine e il senso di disagio non mi permettevano di farne a meno. Ero così arrabbiato che al lavoro insultai una collega, presi a calci degli oggetti e me ne andai senza permesso, anche perché avevo bisogno di usare. Mi fu comminata una sanzione disciplinare per la prima volta nella mia vita e rischiai di essere licenziato.

L’uso crescente e il bisogno sempre più forte di usare iniziarono a preoccuparmi e a stancarmi. Ero sempre solo e triste, non riuscivo a fare niente della mia vita. In un momento di lucidità mi resi conto che non stavo più vivendo una vita degna di questo nome. Disperato, triste, solo, amareggiato, risentito con la vita e tutto il mondo, forse soprattutto con me stesso. Mi ricordo lo sconforto che provai nel guardare la ciotola vuota dove tenevo la droga e per l’ennesima volta dovere attivarmi per trovarla, iniziando cosi il ciclo che conoscevo cosi bene e di cui ero stanco. Non riuscivo a credere di dover finire la mia vita in questo stato e mi sentivo in colpa per come la stavo sprecando, senza neanche provare a viverla. Chiesi aiuto allo psichiatra ma mi disse che in Italia non c’erano strutture per aiutare le persone a smettere di fumare la marijuana. Nel frattempo sospettavo che la mia ex compagna avesse un problema di droga e quindi cercai e trovai il numero di Alcolisti Anonimi, dato che un mio fratello li aveva frequentati ed era riuscito a smettere di bere. Capii in qualche modo che era solo per persone con problemi di alcol e quindi cercai su internet qualcosa più specifico. Trovai su internet il numero di Narcotici Anonimi e chiamai. La persona che rispose al telefono mi disse di accompagnare la mia ex a una riunione, ma quando gli dissi che lei negava di usare droghe, mi chiese se io ne facessi uso. Risposi che ogni tanto usavo la marijuana. Alla fine lei non venne all’appuntamento, ma io decisi di partecipare alla riunione. Quando feci la mia condivisione, raccontai la mia storia e dissi che non sapevo se fossi un tossicodipendente, visto che secondo me la marijuana dava “solamente” dipendenza psicologica e non fisica. Mi venne detto che non dipende dalla droga, ma da una malattia fisica, mentale e spirituale e qualcuno mi disse: “Sei nel posto giusto, continua a tornare!”. Dopo la riunione fui invitato dai membri del gruppo ad andare a cena con loro. Una delle persone mi chiese: “Da quanto tempo non uscivi con delle persone?”. Mi chiesi come faceva questa persona ad avere indovinato il mio passato recente. Alla riunione seguente esplosi in un pianto singhiozzante, proprio come un bambino, per la paura di non farcela. È stato bello essere ascoltato, senza nessuno che cercasse di giudicarmi e sopratutto mi sentivo capito. Nonostante la raccomandazione di fare novanta riunioni in novanta giorni, decisi di prendermela comoda e di andare alle riunioni un paio di volte a settimana, finché una donna mi disse: “Guarda che a me non importa quante volte vai alle riunioni, il recupero è per chi lo vuole”. Questo mi colpì come una freccia in mezzo alla fronte. Da circa 18 mesi cerco di partecipare alle riunioni quasi tutti i giorni, ascolto le persone che rimangono pulite e recuperano, faccio servizio, scrivo i passi e leggo la letteratura. Specialmente all’inizio non è stato facile accettare di essere un dipendente e di avere bisogno di NA. Credo che le riunioni mi diano la forza di andare avanti e sento di essere finalmente, dopo tanto tempo, tornato a casa. Una volta una persona non di NA mi chiese se fossi riuscito a smettere di usare marijuana senza NA; risposi di sì, ma che il problema è che poi ricominciavo sempre a usarla, come un percorso obbligato. Ora non mi vergogno di essere un membro di NA, ma ne sono fiero. È bello trasmettere il messaggio ai dipendenti che soffrono ancora, fare nuove amicizie, provare nuovi interessi, avere una speranza, non sentirmi più solo. Vedo NA non solo come un modo per recuperare me stesso, ma per contribuire al benessere della società. Pensavo che NA fosse l’ultima spiaggia per me, e in un certo senso è così, ma è soprattutto un nuovo inizio. Il primo passo verso il riprendermi in mano le redini della mia vita, prendermi

la responsabilità per il mio benessere e impegnarmi per migliorare me stesso, a volte con molta fatica, ma anche con gioia e soddisfazione, e soprattutto con l’aiuto dei compagni di recupero. Mi viene in mente una volta quando stavamo visitando un dipendente in un reparto psichiatrico di un ospedale e io mi lamentai con un anziano di NA del fatto che ero venuto con i mezzi pubblici e che faceva caldo. Lui mi rispose: “Che ti credi che si recuperi stando in casa con l’aria condizionata?”. È vero, il recupero non è facile, ma mi sento di dire che ne vale la pena. Sto imparando a conoscere me stesso e accettare la vita per quello che è, con le gioie e i dolori. Ma sicuramente sempre meglio della schiavitù del malessere nel quale ho vissuto per cosi tanto tempo, e non ho più paura di volare.